Testo e foto: Paolo Gianfelici
Quando entrai in Romania, nella regione del Banato, si aprì davanti a me un paesaggio piatto, vuoto e monotono. La strada si allungava su rettilinei di chilometri e chilometri. Le rare curve annunciavano un nuovo rettilineo, spesso più lungo del precedente. Non si vedevano rilievi, costruzioni e persone. Il sole al tramonto illuminava la pianura infinita, i campi dorati coperti di mais e di stoppie. Più avanti, grandi alberi secolari iniziarono a fiancheggiare con regolarità la strada, rendendola più gradevole, e apparvero dei piccoli stagni ai margini dei boschetti. Mi fermai per osservare un gruppo di oche, più grandi, più graziose, più bianche e con i colli da cigno più allungati del solito. Ammirai a lungo lo spettacolo, arricchito dai riflessi verdi dell’acqua e dal silenzio che circondava il luogo. Ero entrato da meno di un’ora nel Banato, ma trovarmi da solo di fronte al silenzio di una natura così minimalista nelle forme e nei colori, cominciava a darmi una strana sensazione. Il vuoto attorno a me fino alla linea dell’orizzonte non mi creava un disagio, anzi mi permetteva di concentrami meglio sulle mie impressioni e sui miei pensieri.
Ricordai allora alcune pagine del libro “Danubio” di Claudio Magris, letto prima di partire. A pochi chilometri da dove mi trovavo era nato il grande poeta austriaco dell’Ottocento, Nikolaus Lenau: “uno straordinario lirico della solitudine e della lacerazione, di una natura seduttrice e corrosa dal nulla”. E sempre nelle vicinanze è cresciuta la scrittrice Herta Műller, Premio Nobel per la letteratura nel 2009, che descrive il suo villaggio “come un luogo dell’assenza, nel quale le cose opache….dicono l’opprimente estraneità del mondo ed anche dell’individuo a se stesso”. A quel punto pensai alla malinconia delle “Danze Romene” di Bela Bartok, uno dei massimi musicisti del Novecento, anche lui nato nel Banato a Sânnicolau Mare.
Ricordando a distanza di anni, il vuoto di quella pianura sterminata non provo né tristezza, né tantomeno inquietudine. In quel luogo senza confini trascorsi una manciata di minuti indimenticabili di meditazione.
Proseguii il viaggio verso Timisoara, attraversando i villaggi abitati un tempo dai tedeschi, riconoscibili da lontano per i campanili aguzzi delle chiese. La storia di questa terra è molto intricata. La regione del Banato, riconquistata nel 1716 dagli austriaci, fu bonificata e popolata di romeni, serbi, bulgari, tedeschi, ungheresi, ebrei.
Al crepuscolo arrivai a Timisoara, piccola metropoli cosmopolita e con un ricco passato. Mi colpì subito l’aspetto ordinato e decoroso di città mitteleuropea. I prati e i salici piangenti lungo le rive del canale Bega, i larghi viali alberati, i parchi e i giardini fioriti che cingono il centro storico con una corona di verde. Soprattutto mi affascinò Piata Unirii, nello stesso tempo simmetrica ed eclettica, dove uno accanto all’altro sorgono edifici barocchi e neo-classici, ricchi di elementi decorativi, dipinti d’azzurro, verde, giallo, ocra ed altri colori vivaci che sembrano sottolineare il carattere multiculturale e multireligioso della città.
Compresi che avevo davanti un Paese tutto da esplorare. Il giorno dopo, quando mi misi di nuovo in viaggio verso il cuore della Romania, incontrai quasi subito incantevoli montagne, prati e boschi che offrivano generosamente allo sguardo tutte le tonalità accese dell’autunno. Attraversai molti villaggi, le case contadine erano dipinte con colori vivaci, e in una cittadina di provincia incrociai un festosissimo corteo matrimoniale, in cui le donne (sposa compresa) erano avvolte in lunghi abiti rosso fuoco.
Inoltrandomi più in profondità nel territorio ho scoperto la spiritualità dei monasteri ortodossi, autentici capolavori d’armonia tra architettura, pittura e natura. Dopo quella prima esperienza di viaggio, ho visitato altre volte la Romania. Sono sempre tornato con “nuovi occhi”.
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