Terre d'Europa

La favola di Castel Beseno

Il castello che è stato teatro di grandi battaglie per via della sua posizione strategica raccontato in forma di poetica favola: uno spunto di riflessione sull’amore e sul fluire della vita

La favola di Castel Beseno

Testo e foto: Valerio Magini

Tu-dum… Tu-dum… il rumore del cuore che batte e sale la strada di pietre e terra, scandisce il tempo, un tempo lento come l’acqua calma di un grande fiume. C’era una volta un castello.

Lento il passo che avanza tra le porte, giunge al prato dei tornei e la strada ancora sale e dopo la prima cinta di mura eccone altre, ecco i bastioni e il cuore affaticato continua a segnare il tempo, come un soldato in marcia, senza orologi, senza l’uso del sole, senza distinguere tra giorno e notte. C’era una volta una principessa.

Il passo dalle suole consumate, affiancato talvolta dal volo silenzioso e sicuro di una poiana che chiude le ali e serra gli artigli sulla preda, si fonde al rumore di uno, due, dieci cavalli e ruote di carro, agli schiamazzi dei servitori e dei commercianti per l’unica via di accesso, al controllo delle guardie, al saio e alle preghiere di un prete. C’era una volta un cavaliere.

L’aria a volte lenta e secca a volte umida e veloce, carica di pioggia veglia come una sacerdotessa, a volte amica, a volte antagonista. Ogni cosa muta intorno ai sogni e ai desideri. C’era una volta un amore impossibile.

Il tempo, dilatato dall’agonia dell’assenza, allunga le ombre, secca gli alberi, è neve, è ghiaccio fin dentro le viscere che non riescono a risvegliarsi, è una notte senza alba, è soffocare nel proprio respiro. C’era una volta una promessa.

Gli occhi, gli occhi sono la prima cosa che rapisce il cuore, che desta attenzione. Non c’è cosa più eloquente di un incontro di sguardi, qualunque sia la condizione sociale, la casta di appartenenza, qualunque sia la gabbia, il recinto, il fosso o la loggia da cui proveniamo. Non c’è cosa più difficile che sostenere lo sguardo di una persona sconosciuta e riconoscere in lei l’amore. C’era una volta un sogno.

E c’è questo amore, provato con il timore e l’ingenuità di un ragazzo. Un amore devastante, puro, cui non riusciamo neppure a dare un nome: un’emozione nuova che sembra non ci abbia mai toccato. Ci sentiamo inermi… e il passo di un uomo all’improvviso sembra quello di un fanciullo. C’era una volta una speranza.

Ma, anche se lento, il tempo non si riesce a fermare, come acqua scorre, come pioggia sfugge, come vento entra in ogni dimora, come neve cade su ogni cosa, come aria avvolge la nostra esistenza e la governa. C’era una volta la consapevolezza.

Viene il giorno in cui ogni cavaliere si sente sguarnito della propria armatura: quel giorno arrivò quando gli occhi della principessa si posarono incuriositi su di lui che dopo aver viaggiato e combattuto a lungo, era giunto sfiancato al suo castello. C’era una volta la paura.

Il passo lento del soldato, per le molte battaglie, appare troppo stanco a chi guarda. Forse è vero che siamo fatti della stessa materia dei sogni, che siamo fatti della stessa materia delle stelle, ma per un amore tanto forte ognuno di noi sarebbe pronto a perdere ogni altra cosa, se solo potesse legarsi a quella persona per sempre. C’era una volta l’assenza.

Scende il sole sui bastioni, dopo che appena ha scaldato la pietra delle cannoniere sul fronte Est. Nel cortile l’erba ormai ignara del sangue, delle grida e delle tante battaglie passate, chiude i suoi fiori agli insetti e si prepara alla rugiada della notte. Le lance tacciono stasera. Una figura magra si staglia contro un cielo arancio: a cavallo si allontana lentamente verso la valle che si insinua tra le montagne. Ha preso la sua spada, ha indosso la sua armatura, la stessa armatura che ha vinto mille battaglie e si è disfatta nell’istante in cui ha visto colei il cui amore non sarà mai ricambiato. C’era una volta una corazza inutile.

La ruggine procede il suo corso e si insinua in ogni articolazione, umana, animale, vegetale, minerale. Cadono le foglie, cadono le pietre, cedono i cardini, marciscono le travi dei solai, i coppi spazzati via delle tempeste e poi il fuoco a colmare la devastazione in un’ultima feroce danza, magnifica e decadente. Cadono i soldati. Resta la pietra disordinata a monito della valle, la pietra grande e silenziosa sul colle visibile da lontano. C’era una volta, c’era e c’è ancora la grande fortezza.

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